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  • Writer's pictureVanessa Valenti

30 giorni in Tanzania da infermiera volontaria: dal mio diario di viaggio al Bugando Medical Centre

Per la prima volta su questo blog, in questo post non troverete consigli e informazioni sui viaggi, per cui se quello che stavi cercando è qualche consiglio per un viaggio in Tanzania, tra qualche giorno pubblicherò quell’ultima parte di questo viaggio meraviglioso.

Ma torniamo a noi.. questa volta ho deciso di fare qualcosa di diverso, rischiando che queste righe restino lette da pochi, ma penso valga comunque la pena fare un tentativo visto quanto ci tengo e l’importanza che ha per me la condivisione di quest’esperienza.

Qui troverete alcuni pezzi estratti dal mio diario di viaggio che per un mese mi sono sforzata di compilare assiduamente e puntualmente.. uno stream of consciousness totalmente libero, non curato e liberatorio, di cui ora prenderò alcune righe che elaborerò minimamente per renderle leggibili, in modo da cercare di fare arrivare, a chiunque voglia prendersi qualche minuto da dedicarmi, almeno un po’ di quello che ho vissuto in questo mese e che questa magica terra mi ha dato e per cui le sarò per sempre grata.


Asante Sana Tanzania



Ora, partiamo con una piccola introduzione.

Per chi non lo sapesse, quando non viaggio o scrivo di viaggi, sono un’infermiera che si occupa di Cure Palliative presso l’Istituto Tumori della Romagna IRST IRCCS.

L’IRST da anni sostiene e collabora con il Bugando Cancer Center di Mwanza in Tanzania e, grazie a questa collaborazione, mi è stato possibile trascorrere il mese di Marzo come infermiera volontaria nel reparto di oncologia del Bugando Medical Center.


Fin’ora ho pubblicato articoli di viaggio su quest’esperienza, sulla nostra vita a Mwanza, su ciò che abbiamo mangiato e sui posti che abbiamo visitato nel tempo libero.

LEGGI ANCHE: Cosa e dove mangiare a Mwanza, nel cuore della Tanzania - dove Africa e India si incontrano Dopo tante riflessioni e indecisioni ho deciso di condividere anche la parte più sanitaria e impattante di quest’esperienza nella speranza di sensibilizzare il più possibile sulla situazione in Africa, su cosa avviene in uno degli ospedali più avanzati dell’Africa orientale e su cosa aspettarsi da questo tipo di esperienza, nel caso dall’altra parte dello schermo ora mi stia leggendo qualcuno che vuole intraprendere lo stesso percorso.

P.s.: mi scuso in anticipo per alcuni termini tecnici infermieristici o particolari prettamente sanitari ma soprattutto per alcune descrizioni crude e forse un po’ troppo per gli stomaci più sensibili.



"La sofferenza esiste.

Per tutti quanti, nessuno escluso. L’unico aspetto che accomuna gli uomini, di ogni cultura e religione, è che soffrono, chi più e chi meno.

E allora occupiamoci di questo, perché è reale. Cerchiamo di essere un rifugio per noi stessi e poi di esserlo per gli altri."


Oggi è il primo giorno in ospedale finalmente:sono molto nervosa, non so bene cosa aspettarmi e ho paura di non essere all’altezza, ma mi faccio forza e mi incammino verso il Bugando Medical Centre. Il nuovo building, quello che ospita il Bugando Cancer Centre, ancora non è operativo per cui saliamo nel vecchio reparto al J4: non c’è un vero e proprio reparto di oncologia, siamo dentro a quello di dialisi e oftalmologia.

L’oncologia ha 3 stanze: una da 6 posti letto, una da 12 (in cui ce ne starebbero 4) e una da 2 per i VIP, ovvero i paganti. I pazienti sono per la maggior parte giovani, anche bambini.

L’impatto è davvero fortissimo e la prima impressione che ho è un grandissimo senso d’impotenza e disperazione.

Guardo queste persone negli occhi e davvero non so come aiutarle.. so perfettamente che anche a casa forse non potrei salvarle ma sicuramente potrei alleviare tantissimo il loro dolore e farle stare meglio.. invece qui c’è davvero poco. Vedo gli infermieri fare quel che possono con quello che hanno.

Cerco subito di uscire dalla mentalità italiana, perché altrimenti c’è da mettersi le mani nei capelli: è tutto talmente anti-igienico, non sterile, non secondo procedura.. ma altro modo davvero non c’è. Staccano le flebo, non fanno lavaggi, i deflussori pendono incrostati di sangue dai pali accanto ai letti accatastati. Rabbrividisco. Ma poi mi rendo conto che forse non c’è un deflussore per ogni flebo per ogni paziente, una siringa per fare un lavaggio ogni volta. Però devono essere bravi questi infermieri: avere poco o niente sicuramente ti consente di ingegnarti e dare/fare il massimo con ciò che hai. Ho visto una paziente con un CVP in un dito della mano, e tutto ciò che riuscivo a chiedermi era come cavolo fossero riusciti a prendere una vena in un dito.

Poi è arrivato il momento delle medicazioni.. Dio! La prima è stata a una ragazza albina di 26 anni con un tumore della parotide. Mentre l’infermiere rimuoveva la vecchia medicazione già tremavo. Non ci sono parole per descrivere la devastazione a cui mi sono trovata ad assistere in quella mia prima mattina di lavoro in Africa. Un volto totalmente devastato, sfigurata dalla malattia, deformato. L’osso della mascella completamente mangiato con un buco gigante da cui quasi si vedeva l’interno della bocca.

Impossibile immaginare anche lontanamente il dolore di quella povera anima, eppure non l’ho mai sentita lamentarsi. La osservo e nella mia testa rimbomba solo il rumore dell’ingiustizia di questa vita. Nascere albina in Africa è già una condanna, aggiungici l’essere donna e poi avere un tumore del genere.

Cerco di mettere questi pensieri da parte e cerco il giusto modo di pormi per aiutare l’infermiere che, molto impacciato, cerca di medicare quella mostruosità.

In cuor mio so perfettamente che questa medicazione non serve a nulla e che questa ragazza ha i giorni contati, ma fare questa medicazione mi fa stare meglio, soprattutto prenderle la mano e stringerla per cercare di prendermi un po’ del suo dolore e di portarlo al posto suo.. ma anche per farle capire che sono qui e darle conforto, perché questo è il solo modo che ho di farmi capire. Qui quasi nessun paziente parla inglese e io non capisco loro allo stesso modo in cui loro non capiscono me.

E questa è un’altra delle difficoltà: il non riuscire a capire e farsi capire. L’unico mezzo sono i gesti, gli sguardi e i pochi sorrisi che riescono a trapelare dalla mascherina. Già da subito infatti mi accorgo che è tutto un gioco di sguardi, espressioni, sorrisi e tocchi

La paziente che medichiamo dopo si chiama Angela, è una ragazza di 16 anni, o forse dovrei dire bambina. Osteosarcoma alla gamba, domani andrà in sala operatoria e quando uscirà la sua gamba (da metà coscia in giù) non ci sarà più. Eppure Angela ha uno dei sorrisi più belli che io abbia mai visto, tant’è che mi viene il dubbio che non sappia dell’intervento che l'aspetta.

Le medichiamo la gamba in cui da ben 4 infiniti mesi ha un fissatore esterno, ma lei non fa una piega.


Oggi è il secondo giorno in ospedale io e Angelo saliamo in reparto con un altro umore rispetto a ieri: ormai so cosa aspettarmi, sono molto più tranquilla e desiderosa di mettermi in gioco. In reparto ci sono due ragazze olandesi e la prima cosa a cui penso è che più persone ci sono e meno possibilità avrò di fare concretamente ma cerco subito di scacciare questo pensiero: siamo in Africa, e niente o nessuno sarà mai abbastanza per colmare il divario di questo posto.

L’amputazione di Angela è stata rimandata.. ancora non lo so ma questa cosa avverrà circa ogni mattina per le prossime 2 settimane.

Oggi osservo per la prima volta gli infermieri durante un prelievo ematico: usano siringhe o CVP, i butterfly non ci sono. Anche i lacci emostatici sono dei grandi assenti in corsia, al loro posto si utilizzano i guanti.. un po’ mi rattristo perché ad averlo saputo avremmo potuto portare un bel po’ di materiale.

Durante la visita con i medici, mentre alcuni infermieri si occupano dei prelievi, una paziente si accovaccia su una pentola di metallo e fa la cacca e pipì in mezzo alla stanza con 12 pazienti, 10 familiari e 5-6 sanitari.. Io sono sconvolta e la cosa più sconvolgente è che nessuno sembra farci caso. Mi pare evidente di non trovarmi più in Italia ma dall’altra parte del mondo, quasi in un universo parallelo.

La mattinata è piuttosto tranquilla e sentirsi un po’ inutili e in più è molto facile nei tempi morti: anche inserirsi nel lavoro non è semplice perchè non si è realmente affiancati a qualcuno nello specifico e non sembra esserci un chiaro piano dell’attività.

A un certo punto però un infermiere ci chiama per aiutarlo nelle medicazioni e torniamo da Ashana (così si chiama la ragazza albina con il tumore della parotide). Oggi sembra più agile e a suo agio, se la cava bene anche senza l’assistenza di un secondo operatore e io ne approfitto per stringere la mano della ragazza che oggi, a causa di un cambio nel disinfettante utilizzato, è più visibilmente addolorata.. Per qualche istante perdo il contatto e mi accorgo che quella piccola manina bianca come la neve, con delle dita lunghissime e sottili, cerca la mia.

E in un attimo il mio cuore è pieno, straborda, e la sensazione di inutilità che provavo fino a una decina di minuti prima è sparita di colpo. Questo singolo istante è sufficiente e giustifica tutto: il viaggio, l’intero mese qui.. anche se fosse solo questo l’unico istante, basterebbe. Non importa se nella pratica posso fare poco altro, se di infermieristico non farò molto.. questo deve bastare e basta davvero.


Per la prima volta oggi medichiamo una ragazza affetta da un retinoblastoma: ne ho sentito parlare tanto, anche per via dello studio clinico che sto seguendo qui, ma è la prima volta che ne vedo uno dal vivo. Io e Angelo non siamo riusciti a capire se l’occhio sia stato rimosso chirurgicamente o se sia stato mangiato dalla malattia, ma propendiamo di più per la seconda ipotesi. Ciò che vediamo sotto la benda è raccapricciante: il pus che spurga dal sopracciglio, un odore nauseabondo.. è fatica riportare su queste pagine le cose che vedo in questi giorni.

Mentre torniamo da Ashana per la sua solita medicazione veniamo chiamati dai familiari della paziente che sta accanto alla finestra. Al primo sguardo ci accorgiamo subito che la situazione è critica: la signora è priva di coscienza, palesemente in gasping (4-5 respiri al minuto), polso radiale perso e estremità degli arti totalmente gelati. Il mio animo di palliativista la farebbe sedare e le permetterebbe di andarsene in pace, in tranquillità, circondata dai suoi familiari. La realtà è però ben diversa: siamo in stanza con altri 11 pazienti e altrettanti familiari che fanno a gara a chi riesce ad allungare di più il collo per assistere al macabro spettacolo che si sta svolgendo di fronte a loro. La verità è che le cure palliative qui sono solo un miraggio e mi trovo a fare i conti con uno dei migliori infermieri del reparto, che si affanna somministrando fiale su fiale di cortisone e soluzione fisiologica per l’ipovolemia, cercando di rilevare inutilmente i parametri vitali e chiamando disperatamente il medico in cerca di aiuto.. come se realmente ci fosse qualcosa da fare. Io e Angelo siamo immobili, e osserviamo in silenzio questa scena frenetica e insensata. Non possiamo fare nulla, nemmeno però assecondare questo delirio, mentre vedo l’infermiere che disperato cerca freneticamente nei cassetti del “carrello delle emergenze” una fiala di adrenalina.. ma fortunatamente (e mi rendo conto del contro senso delle mie parole), tutte le fiale del carrello sono aperte e utilizzate, non ce n’è nemmeno una utilizzabile.

La signora muore, finalmente ha smesso di soffrire davanti ai nostri occhi e la cosa più assurda è che medico e infermiere si affannano nello spiegare a me e Angelo che purtroppo non c’era nulla da fare, che la signora aveva metastasi diffuse anche all’encefalo e quindi non avrebbe avuto senso praticare la rianimazione cardio-polmonare.. sembrava cercassero di giustificarsi con noi, come se si sentissero in colpa per non essere riusciti a salvarla.. come spiegargli che è stato giusto così, che non poteva andare diversamente? Che non è colpa loro? Anzi, che avrebbero dovuto lasciarla andare molto prima? Che anche in Italia sarebbe morta. E’ dura, davvero dura, bisogna completamente distaccarsi dalla mentalità italiana.

E forse inizio finalmente a prendere coscienza del divario, di quanto siamo fortunati a casa e non ce ne rendiamo conto, di quanto abbiamo da essere grati.

Medichiamo anche Angela, che finalmente domani dovrebbe essere operata, e al termine del giro l’infermiere ci ringrazia tanto per la cooperazione e l’aiuto, ma sono io che vorrei ringraziarlo di cuore per il suo coraggio e la dedizione con cui lavora ogni giorno senza perdersi d'animo in un contesto del genere in cui deve essere demoralizzante e devastante sapere di poter solo ed esclusivamente tamponare e mettere toppe a una bara che affonda e da cui entra l’acqua da ogni buco.

Si è fatta l’ora di pranzo e io sono stanca, letteralmente stravolta e prosciugata di ogni forza fisica e mentale: poche ore qui dentro paiono giorni.



Oggi mi sveglio distrutta: sembra faccia sempre più caldo, l’umidità è devastante e inizio a risentirne.. stare in piedi è faticosissimo ma comunque portiamo a termine il giro letti e passiamo la polvere in tutte e tre le stanze.

Eh sì perché qui dopo lo scambio di consegne fra chi smonta da notte e chi inizia il turno della mattina, come prima cosa, bisogna rifare i letti. Si tolgono i lenzuoli sporchi e si sostituiscono con quelli puliti: puliti per modo di dire perché sono tutti strappati e macchiati. I cuscini non ci sono. E a seguire si fa il giro di tutte le stanze per passare la polvere con degli straccetti vecchissimi, logori e neri che vengono passati in un catino con acqua e sapone e perennemente risciacquati nella stessa acqua che dopo due letti è putrida. Questi passaggi sono parte di una radicata routine senza senso che gli infermieri devono mettere in pratica ogni mattina.

Stamattina in reparto ci sono pochi pazienti: Ashana è stata dimessa… continuerà le medicazioni a casa - ovvero nessuno la medicherà e tra qualche giorno sarà morta. Ma hey, questo è normale. Cerco di ripetermelo: non esiste il team di wound care che va a casa a fare queste medicazioni, si fa fatica anche in reparto. Anche oggi Angela non viene operata, continua ad aspettare sul suo lettino.

Per la prima volta c’è una pazientina minuscola: una piccolina di appena 6 mesi. Difficile spiegare il trauma di avere una bimba di 6 mesi ricoverata in oncologia nel letto a fianco a un signore di 60-70 anni. Sembra tutto sbagliato, impossibile, eppure questa è la realtà delle cose. Non esiste un’oncologia pediatrica, i pazienti sono tutti assistiti nello stesso modo, nello stesso posto, e con gli stessi mezzi e materiali utilizzati per gli adulti. Impensabile in Italia, vero? Eppure…

Questa bimba è bellissima, paffutella con due guanciotte tonde e piene, due occhioni giganti, scuri e super espressivi.. sembra il ritratto della salute, eppure ha un epatoblastoma e sta facendo la chemioterapia. Ne parlo con Angelo.. probabilmente non arriverà a Natale. Guardo la madre che le dà da bere e la fa giocare, e mi chiedo se sappia che la sua bimba ha le settimane contate. Non sembra saperlo, o semplicemente l’ha accettato.. non riesco a capirlo.

Vedere bambini e anziani morire l’uno a fianco all’altro come si fa? Non riesco a capacitarmene e ho il sentore che non ci riuscirò mai, mentre per tutti qui sembra normale.

A fine mattinata, verso l’ora di pranzo mi dirigo nell’ufficio ricerca per mettermi sotto con il database per lo studio del retinoblastoma, un lavoro più lungo e complesso di quel che avrei immaginato. Le cartelle dei pazienti sono cartacee, incomplete, piene di inesattezze, tirate via e la metà delle informazioni mancano. Come si fa a trattare pazienti di cui non è riportata la data di nascita? Come si fa a fare diagnosi senza esami diagnostici per immagini, a somministrare la chemioterapia senza un esame istologico? Rendersi conto dell’approssimatezza con cui viene fatta ogni cosa è sconvolgente.. Vanessa non sei in Italia, non sei in Italia.. questo è il mio mantra, la cantilena che mi ripeto tutto il giorno qui dentro.


Oggi inizia la nostra seconda settimana al Bugando: il reparto è di nuovo pieno ma ora ci sono più uomini e nessuna medicazione da fare. In compenso aiuto per la prima volta nella somministrazione della chemioterapia e a cambiare qualche ago.

Non so nemmeno da dove iniziare per elencare la miriade di cose che mi sconvolgono:

  • il materiale a disposizione è davvero poco e di qualità pessima, il che rende il lavoro dell’infermiere davvero difficile, faticoso, impreciso e rischioso sia per il professionista che per il paziente. Non ci sono i lacci emostatici (sostituiti con i guanti), i butterfly non esistono per cui per fare i prelievi si utilizzano le siringhe oppure i CVP la cui punta è quasi sempre smussata e forare la pelle è un’impresa;

  • la chemioterapia viene presa in farmacia e pagata direttamente dai pazienti che la portano in reparto in dei sacchetti. Quando è ora della somministrazione l’infermiere si reca al letto del paziente, ritira i farmaci, li diluisce al letto (senza apposita mascherina, e guanti, nè deflussori con valvola e materiale anti-spandimento.. la cappa non sanno neanche che cos’è) e li somministra;

  • non c’è ordine, un piano di lavoro né il minimo senso della priorità, di come si lavora sterilmente, di come ottimizzare i tempi e le risorse.

E’ difficilissimo rendersi conto di tutto questo e non poter dire nulla, aiutare, insegnare e contribuire a migliorare.. perché come mi conferma Angelo che ha più esperienza di me, bisogna stare attentissimi a come ci si pone e a cosa si dice altrimenti si rischia di offendere i colleghi e che questi non ti parlino più. E’ dura rendersi conto che si parte dall’Italia belli carichi convinti di venire in Africa ad aiutare, insegnare, cambiare le cose e una volta qui doversi scontrare con la realtà dei fatti in cui sei l’uomo bianco che li ha occupati, schiavizzati e fatti sentire inferiori per centinaia di anni e non è possibile pensare di imporsi come se fossi quello più intelligente, capace e portare la propria conoscenza come se fosse migliore. Bisogna entrare nel team in punta di piedi, osservare in silenzio e amalgamarsi in maniera umile, e una volta integrati aspettare che siano loro a chiederti consiglio, un aiuto, un’opinione su come fare una certa cosa, o un’idea su come una certa procedura viene fatta in Italia. Ed è allora che si apre un piccolo spiraglio in cui inserirsi e dare qualche consiglio, ma anche qui bisogna sempre farlo ricordandosi dove si è e cosa si ha. Inutile spiegargli che i prelievi ematici si fanno con i butterfly e non con i CVP perché tanto loro non li hanno, per cui la mia indicazione a cosa servirebbe? Inutile dirgli di cambiare il deflussore dopo la trasfusione, di fare i lavaggi per non fare ostruire il CVP o di chiudere gli accessi con dei tappini.. tanto il materiale non c’è e potrebbero seguire il tuo consiglio per 3 giorni ma poi rimarrebbero senza tutto e non potrebbero più assistere gli altri pazienti. No, la difficoltà di quest’esperienza sta proprio riuscire ad aiutarli e a dare consigli costruttivi, fattibili e ripetibili qui nella loro realtà, riuscire ad entrare in questo mondo e migliorare facendo i conti con la realtà dei fatti. Altrimenti è tutto inutile. Servono cambiamenti concreti e adattati al contesto, ripetibili e soprattutto continuità: perchè ho notato che le cose le mettono in pratica, ma per due giorni, poi tutto torna come prima. C’è bisogno di rinforzo continuo.

Ad ogni modo, rispetto alla scorsa settimana, oggi gli infermieri mi sembrano più espansivi e fiduciosi, più propensi a chiedere e a collaborare e mi sento soddisfatta e fiduciosa anche se un filo scoraggiata: ho a disposizione poco meno di 4 settimane in reparto e ne ho impiegata una intera se non di più per ottenere fiducia, rispetto e inserirmi.. Mi rendo conto che servirebbe molto più tempo per incidere davvero.

Dopo pranzo mi metto al lavoro sul database del retinoblastoma e continuo a sfogliare cartelle di bambini che arrivano in prima visita in condizioni mostruose, spesso dopo mesi o anni da malattia oncologica conclamata e sintomatica, che gli ha deformato il viso e il cranio.. mi chiedo come possa un genitore affidare il proprio figlio palesemente gravemente malato alle cure di uno sciamano e alle terapie naturali e spirituali fino ad arrivare a questo punto.. un punto in cui anche avendo le migliori terapie mediche qualsiasi intervento/trattamento è totalmente inutile e palliative. Penso che neanche in Italia con le migliori tecnologie sarebbe possibile fare qualcosa.

Sfogliare queste cartelle ma anche questi pochi giorni trascorsi in reparto mi sono bastati per capire quanto bisognerebbe investire nella prevenzione e nel diffondere la cultura sanitaria e dei controlli piuttosto che su innovazioni mediche e materiale per curare.



Oggi finalmente ci siamo ricordati di portare ad Angela, che ovviamente ancora non è stata operata, un piccolo kit di bellezza che Angelo aveva portato con se: qualche smalto e dei campioncini di profumo.. Cerco le parole per riuscire a mettere su carta il suo sorriso, ma è stato davvero indescrivibile. Penso che per qualche istante, siamo davvero riusciti a renderla la ragazzina più felice dell’universo.. con cosa? con un paio d’euro. Incredibile davvero come con così poco tu riesca davvero a fare la differenza qua. E’ stato un momento di pura gratitudine e gioia, una sensazione più appagante di anni di lavoro in Italia. Mi dispiace tantissimo aver portato così poco da casa: ora che sono qui riesco a rendermi conto che avrei potuto portare così tanto in più che avrebbe fatto la differenza, anche in reparto.. Ma mi segno tutto per la prossima volta in modo da essere più pronta ed efficiente.

Una cosa che noto oggi e mi colpisce particolarmente al lavoro è il rendermi conto dell’estrema dedizione e accudimento che i familiari hanno rispetto al malato - familiari di qualsiasi sesso. Non solo madri verso i figli ma anche padri o figli verso i genitori… un accudimento e una presenza molto più importante che a casa, a cui non ero abituata. Accudimento fisico vero e proprio: qui la famiglia preferisce occuparsi direttamente della persona.. è davvero raro vedere un infermiere che lava o cambia un paziente. Ho assistito ad un amore e una dedizione che in Italia è davvero rara, incredibilmente intensa e che cambia un po’ la prospettiva con cui ci si approccia anche a casa a pazienti africani: penso che questa sia un’immensa e irripetibile opportunità di avvicinarmi a questa cultura e di migliorare l’assistenza anche in Italia di questa popolazione.

Anche oggi mi cimento con l'esecuzione di prelievi ematici totalmente all’arrembaggio: mi fa molto ridere vedere come in pochi giorni mi sono totalmente adattata a questa realtà e faccio cose che se me le avessero dette una settimana fa mi sarei categoricamente rifiutata raccapricciata. Se dopo un tentativo di prendere una vena non si riesce, si re-inserisce l’ago nella cannula e si ricomincia.. foro dopo foro, anche 6 o 7 fori con lo stesso ago rincannulato volta dopo volta.. il rischio di pungersi è altissimo e la sterilità non si sa neanche più dove stia di casa, il rischio infettivo è alle stelle. Una volta che si è presa la vena e si sfila l’ago dove metterlo? Dentro l’halibox? Assolutamente no, si infila nel materasso utilizzato come un puntaspilli.. per cui quando si rifà il letto bisogna fare tantissima attenzione a aghi che sbucano da tutti gli angoli.. quest’ultima cosa è irripetibile, proprio al di là di ogni pensiero per una qualsiasi infermiera europea, ma il discorso dell’utilizzo dell’ago rincannulato.. ahimè che alternative ci sono? I CVP per tutti non ci sono e non ci si può permettere di utilizzarne uno nuovo ogni volta, per cui anche io mi sono dovuta adattare e ho fatto così, cosa che mai mai in vita mia avrei pensato di poter fare. Ma a mali estremi estremi rimedi.


Questa giornata lavorativa inizia con il posizionamento urgente di un drenaggio toracico a un paziente letteralmente morente, forse già più morto che vivo: il drenaggio è stato inserito dal pneumologo senza guida eco, con un CVP rosa facendo due tentativi ovviamente con lo stesso ago rincannulato e poi collegato a un deflussore da flebo per la fuoriuscita del liquido che andava a finire in una sacca da CV….. non c’è bisogno che io commenti perché penso che la follia di questa manovra sia di per sè già abbastanza esplicativa del livello medico-assistenziale.

E’ tornata la ragazza con il retinoblastoma che le ha letteralmente mangiato l’occhio e che puntualmente, prima di essere medicata, mostra con fierezza lo scontrino che attesta l’avvenuto pagamento della prestazione che l’infermiere dovrà eseguire: 20.000 TSZ, circa 10 €. Qui praticamente tutto è a pagamento, a meno che tu non abbia un’assicurazione sanitaria, che però è molto costosa.. per cui puoi farti curare finché ci sono i soldi, quando finiscono i pazienti iniziano a saltare i trattamenti.

Dopodiché medichiamo una nuova paziente con un tumore al seno: ha sicuramente subito una mastectomia ma ora ha una recidiva con una bruttissima lesione a cavolfiore e una profonda ulcera che espone un bel pezzo di carne viva.. giuro che provo dolore solo a guardarla. Invece lei è impassibile, fiera, trattiene il dolore finché può ma poi qualche smorfia trapela dal suo viso senza però perdere mai la sua compostezza. Mi trovo ad ammirare questa donna di poco più di 40 anni, a occhio e croce, e cerco di aiutarla come posso per farle forza ma purtroppo la lingua non mi è d’aiuto per cui ricorro all’unico linguaggio universale che conosco e le stringo la mano.

All’inizio noto la sua sorpresa, è un po’ spaesata ma poi mi guarda riconoscente e mi stringe a sua volta ripetendomi mille volte “Asante Sana” (grazie mille in Swahili). Alla fine della medicazione l’aiuto a rivestirsi e le stringo la mano e lei guardandomi mi sorride e ripete un’ultima volta “Asante”. So che è impossibile ma mi sembra che in questi quasi 30 anni di vita io non abbia mai conosciuto la vera gratitudine e che io ne stia imparando il vero significato ora. Negli occhi di questa gente sto imparando così tante cose che prima non vedevo o forse a cui non davo peso, e capisco che qui per dare una mano non servono lauree o particolari competenze.. la differenza può farla chiunque semplicemente con la presenza, la gentilezza e l’umanità.


Oggi inizia la nostra ultima settimana piena di lavoro qui al Bugando: il tempo sta volando, sembra ieri che siamo arrivati.

Non sappiamo se saremo ancora nel vecchio edificio al J4 o se finalmente il reparto si è trasferito nel building del nuovo Cancer Centre. Giovedì scorso Angelo ha detto che ha aiutato a iniziare il trasloco mentre io ero a letto a smaltire febbre e vomito e gli hanno assicurato che oggi il nuovo reparto sarebbe stato operativo, ma non ci crediamo molto.. infatti per prima cosa ci dirigiamo al J4 dove però ci aspetta una bella sorpresa: è completamente deserto! Si sono davvero trasferiti!

Non ci avrei mai creduto e mi sento fortunatissima: sono riuscita a vedere sia il vecchio reparto che quello nuovo! Non stiamo nella pelle e corriamo nel nuovo building per vedere come si sono sistemati.. siamo super curiosi di vedere se i ragazzi lavoreranno allo stesso o modo o, come spera Angelo, ci saranno dei miglioramenti incentivati dal nuovo ambiente. Io ne dubito fortemente! Ma alla fine avevo ragione io.. lo stesso caos che fino a qualche giorno fa regnava nel vecchio reparto ha già invaso anche quello nuovo: è già tutto sporco e disordinato.. i mezzi e gli strumenti sono gli stessi per cui era impossibile aspettarsi qualcosa di diverso!

Oggi ci sono parecchie medicazioni da fare e quando arriva il turno di Marco, un ragazzino di 15 anni, mi sento mancare l’aria.. penso sia il caso più brutto che io abbia visto fino ad ora. Marco è totalmente sfigurato da un tumore della parotide che è cresciuto a dismisura deformandogli collo, spalla e scapola. Marco è piegato in due dal dolore e piange… non so se pianga per il dolore fisico che prova, per la vergogna di ciò che gli è cresciuto addosso o perchè sa che sta morendo.. E io dentro continuo a chiedermi come possa un genitore aspettare che il proprio figlio arrivi a questo punto prima di farlo vedere a un medico.. sono due settimane che mi faccio questa domanda e giuro che non riesco a trovare una risposta soddisfacente o che possa giustificare quel che vedo.

Questa medicazione viene affidata a me come primo operatore e il mio entusiasmo iniziale viene subito smorzato man mano che rimuovo le bende vecchie e mi rendo conto dell'enormità della massa che prima era in parte nascosta o per lo meno camuffata e che ora sbuca dal collo del ragazzo deformandolo totalmente. Lo spettacolo è spaventoso e non riesco davvero a capacitarmi che un bambino, perché sì a 15 anni alla fine non è altro che un bambino, debba fare i conti con questa immagine allo specchio nella consapevolezza che i suoi giorni sono contanti. Il dolore che prova deve essere atroce perché sta a gattoni sul letto con la testa sul materasso mentre lo medico. La lesione è immensa, piena di pus e tessuto infetto, l’odore tremendo e non so da che parte farmi.

Come per ogni medicazione utilizzano kit sterili (che sterilizzano manualmente con vari passaggi in secchi di disinfettante…..) e una miriade di garze e guanti sterili: come ormai ho imparato non dico nulla e li lascio fare.. sarebbe inutili spiegargli che la lesione è infetta e assolutamente sporca, di sterile non c’è nulla e che quindi stanno solo sprecando materiale inutilmente. Cerco di pulire la lesione come posso e applico il bendaggio meglio che posso considerando la protuberanza e l’estensione della lesione.


Dopo un giro letti estenuante in cui abbiamo cambiato 1 letto si e 3 no dato che piove da giorni e mancano i lenzuoli (ebbene sì dato che i lenzuoli vengono stesi in cortile quando piove tanto non si asciugano e non ci sono), siamo ripartiti con le nostre medicazioni e torniamo da Marco. Nonostante io abbia già visto la sua malattia, oggi è un altro colpo al cuore e preferisco dare una mano nella stanza di fronte dove sono ricoverati solo bambini.

Ora che siamo nel nuovo Cancer il reparto di degenza accoglie pazienti oncologici sia pediatrici che adulti. Io adoro i bambini e i reparti di pediatria e per quanto questi piccoletti siano tutti meravigliosi, dopo il primo impatto di adorazione più totale, la consapevolezza che quasi tutti non arriveranno a fine anno colpisce forte al cuore.

Ce ne sono di piccolissimi, anche di appena pochi mesi, e la maggior parte è affetta da epatoblastoma, nefroblastoma, retinoblastomi, tumori cerebrali o malattie ematologiche. I bimbi vengono trattati con gli stessi farmaci degli adulti, solo a dosaggi ridotti.. e pensi che mentre combatti la malattia in realtà danneggi il midollo e molto probabilmente moriranno per gli effetti collaterali. Anche il materiale con cui li assisti è lo stesso per gli adulti: non hai gli strumenti pediatrici di rilevazione dei parametri vitali, i CVP sono a misura di adulto e con lo stesso ago che inserisci nelle vene di un adulto, prendi le vene di un bimbo di 1 anno. Eppure questi bimbi sono tutti fantastici, nessuno versa una lacrima mentre vengono forati più e più volte con questi aghi giganteschi.. si sottopongono a biopsie osteomidollari da seduti in braccio alla mamma in guardiola e non li senti fiatare. Come gli adulti, anche i bambini qui a Mwanza sono piedi di orgoglio, dei veri e propri stoici.

La cosa che mi affascina è la compostezza dei genitori di questi bambini: in Italia dei genitori con i figli in queste condizioni non si darebbero pace, sarebbero provati e disperati, mentre qui davvero non fanno una piega. Forse perché perdere un figlio è un evento ordinario, un evento molto probabile nel momento in cui si mette al mondo al bambino, che questi genitori passano in corridoio e assistono i bambini impassibili, come se davvero fosse qualcosa di naturale. Io ho visto genitori devastanti e incapaci di fare i conti con l’imminente morte del proprio figlio e osservo con stupore queste madri la cui vita continua quasi impassibile. E’ una realtà davvero distante e che fatico a comprendere.


Oggi è il giorno in cui ho incontrato Caroline: una bimba di 8 anni, tutta sorriso e occhioni scuri, con un tumore cerebrale pluri-operato. Caro fa fatica a camminare, e ha chiaramente qualche disturbo cerebrale e rallentamento psico-fisico, soprattutto nell’eloquio, ma nulla di tutto ciò intacca il suo sorriso.. un sorriso così io l’avevo visto poche volte in vita mia. Non so cosa ci sia in questa bambina che mi abbia colpita così tanto ma mi è entrata nel cuore, vorrei riuscire a fare di più. Infatti mi riprometto di comprarle qualche gioco al mercato e di portarglielo. Caro se ne sta qui in ospedale con il suo nonno super vecchio, perché la mamma è a casa con un altro figlio piccolo e il papà ha abbandonato la famiglia quando Caro ha iniziato il suo percorso oncologico.

Faccio un salto di sotto in radioterapia dove lavora Enrico per dare un’occhiata ai macchinari: dopo i vari racconti di Enri sono molto curiosa. Riesco a entrare in sala con lui e resto scioccata dal fatto che non fanno i tatuaggi ai pazienti, ma per segnare il punto da irradiare applicano un minuscolo pezzettino di scotch con una croce sopra fatta con un pennarello. La domanda sorge spontanea: appena ci si lava o cambia lo scotch cade o si sposta, per cui come fanno? Semplicemente irradiano un po’ approssimativamente la zona prescelta.


Oggi, dopo quasi 3 settimane di servizio al Bugando, nel cuore della Tanzania, io - Vanessa Valenti, infermiera di Cure Palliative - ho pianto per la prima volta.. ho ceduto all’emotività per la prima volta da quando sono qui e a spezzarmi è stata una bambina di appena 2 anni. Anche ora, mentre scrivo queste righe, mi ritrovo con gli occhi lucidi ripensandoci e credo che gli occhi di quella piccolina che mi guardano chiedendo pietà siano la cosa a cui penserò ogni volta che cercherò fra i ricordi quest’esperienza. L’immagine simbolo della situazione qui in Tanzania, quella che mi smuoverà sempre e che mi farà tornare per fare di più.

La bambina in questione ha appena 2 anni, un corpicino scheletrico mangiato dal coriocarcinoma da cui era affetta.. questa immensa massa in zona pelvica che era cresciuta esternamente, creando una protuberanza gigantesca sopra il sedere, e all’interno riempendole l’addome di cancro e ascite. La sua pancia è quella tipica dei bambini del Biafra, gonfissima e tesa, rendendole l’esile figura incredibilmente sproporzionata e di cui palesemente si vergognava. Si perché se ne stava stesa coperta con uno dei loro parei coloratissimi, e quando la madre cercava di scoprirle per controllarle catetere, drenaggio da cui usciva materiale giallastro o il pannolone, lei si nascondeva. La stessa cosa succedeva quando i medici provavano a visitarla.. si copriva con il suo pareo per nascondere quella malattia immensa e iniziava a piagnucolare. Poche volte l’ho vista piangere nonostante avesse un dolore incredibile, ad ogni movimento, e faceva fatica a respirare, sicuramente per l’ingombro addominale di tutta quella massa. Al termine del giro visita mi ha guardata negli occhi per la prima volta, dopo non essersi lasciata visitare dai medici, e io in quello sguardo giuro che ci ho visto tutta la rassegnazione, lo sconforto e la consapevolezza della morte imminente. In quel preciso istante, io mi sono sentita impotente, inutile e incredibilmente vuota. Lei lo sapeva, una bimba di 2 anni sapeva perfettamente che di lì a poco sarebbe morta e sembrava volesse solo un po’ di pace. Invece stava in camera con altri 5 bambini piccoli e le rispettive madri e fratelli. Di pace non se ne parlava, di sollievo dal dolore neanche l’ombra.

Non l’ho più rivista, quando siamo tornati il giorno dopo la piccola era morta.


Scorsa settimana, quando sono tornata al lavoro con i giocattoli da distribuire in reparto fra i più piccini, avevo con me una bambola parecchio bruttarella (ma l’unica che avevo trovato) da regalare a Caro, ma lei era già stata dimessa. L'avevo riportata a casa e riposta sulla scrivania insieme alle ultime cose acquistate per darle alle suore da distribuire ai bimbi della scuola dove alcune di loro insegnano e ogni volta che la guardavo mi ricordava che non avrei rivisto Caro e non sarebbe riuscita ad avere la sua bambola. Oggi era anche il nostro ultimo giorno al Bugando per cui le mie speranze erano totalmente estinte.

Per cui non so descrivere la mia gioia quando, arrivati in reparto, io e Angelo abbiamo visto Caroline su una sedia a rotelle di fianco al suo nonno, mentre aspettavano pazientemente.

A questo punto sono corsa a casa, a neanche 5 minuti dall’ospedale, per recuperare quella benedetta bambola che avevo tenuto da parte e fortunatamente, fino ad allora, mi ero rifiutata di dare a qualunque altro bambino. Ho fatto un bel sacchetto con quell’orrenda bambola, qualche macchinina, sapone, spazzolino e dentifricio, e anche qualche maglietta da bimba e sono corsa di nuovo al lavoro.

Pensavo che il sorriso di Caro quando ci ha rivisti fosse il più bello della mia vita ma nulla eguaglia il momento in cui ha visto la sua bambola, la prima della sua vita, e l’ha chiamata Sophia. Vedere Caroline giocare con quella bambola mi ha riempito e svuotato il cuore allo stesso tempo, se è possibile. L’unica cosa che riuscivo a pensare era come poter fare di più per quel poco tempo che le rimaneva. Le ho regalato la mia collana, in modo che un pezzettino di me rimanesse sempre con lei. Una collanina semplicissima, di perline rosa, da pochi spiccioli.. eppure quando l’ho messa al collo di Caroline, per pochi istanti, sono sicura di averla resa la bambina più felice di questo mondo. E lei ha reso me la ragazza più felice di questo mondo, perché quegli istanti e quei sorrisi sono fra le cose più preziose e care che io abbia mai ricevuto, impagabili e insostituibili.

Prima di lasciare il reparto per l’ultima volta, dopo la piccola festicciola che ci ha organizzato Joyce assieme ai ragazzi del reparto, dopo aver mangiato la splendida torta e aver scartato i regali che ci avevano fatto, ho lasciato a Joyce circa 100.000 STZ per pagare le chemioterapie e le terapie del dolore di Caroline. Tutto quello che avevo nel portafoglio gliel’ho dato. Una piccola goccia nel mare, ma spero che le siano utili e che possano darle un po’ di sollievo in questi ultimi mesi.


E così lasciamo questo ospedale, questi meravigliosi e coraggiosi infermieri, ragazzi che ammiro profondamente perché fare l’infermiere in queste condizioni è davvero un’impresa, che loro svolgono al meglio delle loro possibilità. Sfido tanti dei miei colleghi ad essere alla loro altezza. Qui ci siamo sentiti davvero accolti e parte del team, dopo i primi giorni di iniziale e comprensibile diffidenza, ci hanno lasciato entrare nelle loro vite e io gliene sarò per sempre grata e spero con tutte le mie forze di poter rivedere tutti al più presto.



Penso e spero che non ci sia bisogno di aggiungere altro, se non un enorme grazie a tutte le persone che hanno contribuito a farmi vivere tutto questo, ad Angelo ed Enrico che mi hanno accompagnata in quest'avventura, e a questa terra che mi ha accolta e fatta sentire a casa.


Se siete arrivati a leggere fin qui allora un enorme grazie anche a voi che spero non vi sarete annoiati. Per qualsiasi domanda sono a disposizione come sempre, in privato o nei commenti.




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